IL RUOLO DELLA FRANCIA NELL’UE (E DELL’UE NEL MONDO)

di Olivier Dupuis

Mantenere il proprio rango. Il concetto ha un che di antiquato, un profumo di “ancien régime“. Tuttavia, è questo che, nella testa della classe dirigente francese, presiede ancora oggi alla definizione del ruolo e della posizione della Francia nel mondo. Ma di quale rango si parla? Quello passato, della Francia-grande potenza, con un ritorno alle alleanze di retroguardia come alcuni sembrano preconizzare? Sarebbe un suicidio, poiché comporterebbe la distruzione di tutto l’edificio europeo, pazientemente costruito sin dagli anni ’50 del secolo scorso.

Per definire il rango della Francia oggi serve quindi, secondo noi, una rottura concettuale. Si tratta di “pensare” il passaggio dall’idea di un’Europa strumentale ai disegni della Francia a quella di una Francia inscritta nel cuore dell’Europa.

Lo stravolgimento dell’ordine europeo sotto i colpi d’ariete del regime russo, il ritorno in Europa delle guerre di conquista e dell’annessione di territori con la forza,il disegno manifesto da parte di una potenza straniera di far implodere l’Unione Europea, lo spostamento del baricentro della politica estera degli Stati Uniti verso l’Asia, l’indebolimento della Nato: tutti questi fenomeni rendono particolarmente visibile la necessità di elevarsi ad un livello finora mai visto di partecipazione, di impegno e di responsabilità nell’impresa europea.

Questo vale evidentemente per tutti i Paesi Membri dell’Unione – e per tutti i cittadini europei – ma vale ancora di più per la Francia, proprio in ragione della capacità, che essa ha saputo mantenere, di “comprendere la grande strategia e l’esercizio del potere in tutte le sue dimensioni”(1).  Se il Paese che, più di ogni altro sul continente europeo, si è voluto dare i mezzi di una autonomia strategica(2) non è più oggi in grado di mantenere il suo rango, non è per ragioni congiunturali – la crisi economica – ma per ragioni ben più profonde, strutturali, ovvero semplicemente aritmetiche. Come già testimonia lo stallo tecnologico in settori vitali come, per esempio, gli aerei da caccia, le forze aeronavali, i droni, la cyber-guerra… Un Paese di 65 milioni di abitanti non può rimanere in corsa da solo, quali che siano la sua volontà ed il suo genio.

Come nel maggio 1950, quando Robert Schumann e Jean Monnet cambiarono, nello spazio di un giorno, il destino dell’Europa e allo stesso tempo riuscirono a reinserire una Francia ancora prigioniera della sconfitta del 1940 al centro della storia del continente(3), siamo convinti che un’iniziativa risoluta e circoscritta di Parigi – ieri il carbone e l’acciaio, oggi un esercito comune e una decisa politica a favore di un ancoraggio solido dell’Ucraina all’Unione – sarebbe un passo decisivo per ridare fiato al progetto europeo e insieme per superare la grande crisi di identità che la Francia sta attraversando.

 

Premessa: un new deal fra la Gran Bretagna e il “continente”

Non affrontare la questione britannica (o, più precisamente, la questione dell’esistenza di due progetti diversi secondo la formula di Jean-Louis Bourlanges, quello di “una Europa forte, organizzata e solidale” da una parte e di un’Europa “di circolazione e di scambio”(4) dall’altra) rafforza i sentimenti antieuropei in Gran Bretagna, asseconda una logica di disintegrazione e di disaffezione da parte dei cittadini rispetto al progetto europeo e contribuirà, nel medio termine, all’indebolimento se non allo smantellamento dell’Unione europea.

Continuare a ripetere, come un mantra, che nessuna revisione dei Trattati sia possibile significa chiudere David Cameron nella trappola che gli hanno teso i fautori del ritorno al passato glorioso del Paese di Sua Graziosa Maestà; ma significa anche perpetuare, in seno all’Unione, il gioco comodo delle alleanze di circostanza a scapito delle scelte politiche. D’altra parte, pregare i Britannici, come fece Michel Rocard, di lasciare l’Unione Europea significa trovarsi un capro espiatorio a buon mercato al quale imputare tutte le incapacità degli altri Stati membri; significa privarsi, a breve e a medio termine, del valore aggiunto britannico.

 

Preservare l’avvenire

La Francia potrebbe affrontare di petto la questione e proporre agli altri Stati Membri dell’Unione di costruire un deal, un deal vero e serio, con la Gran Bretagna: la divisione del trattato dell’Unione in due parti. La prima riprenderebbe tutti i dispositivi relativi al grande mercato. Sarebbe l’Europa delle quattro libertà di circolazione – compresa, certo, benché a certi britannici dispiaccia, quella delle persone. Il Regno Unito (come pure, eventualmente, altri stati desiderosi di limitare la loro partecipazione al progetto europeo) potrebbe ritirarsi da tutte le politiche comuni (agricoltura, aiuti strutturali, affari esteri, giustizia…), pur mantenendo il diritto di partecipare – senza però diritto di voto – a tutti i dibattiti sulle politiche portate avanti nell’UE dagli stati desiderosi di approfondire la costruzione europea.

Come contropartita, tuttavia, il Regno Unito accetterebbe di ratificare una modifica dei Trattati che preveda l’estensione del voto alla maggioranza qualificata, la trasformazione del Consiglio in un vero Senato europeo, la soppressione delle presidenze di turno, l’elezione del presidente della Commissione a suffragio universale, nonché di rimanere parte della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.

 

Un esercito europeo comune

Di fronte agli sconvolgimenti strategici in corso, la questione della difesa dell’Europa da parte dell’Europa acquisisce un’importanza finora inedita. Tuttavia, rari, molto rari, sono coloro che richiedono un’iniziativa risoluta dell’Europa in questo campo. Tutt’al più, si sentono, di qua e di là, appelli a rafforzare i contributi degli stati membri alla Nato. L’Organizzazione atlantica rimane, sembra, un orizzonte insuperabile, l’unico e ultimo riferimento.

Se però, come altri, crediamo che la presenza di due o tre divisioni alle frontiere orientali dell’Unione avrebbe molto probabilmente potuto scongiurare lo scenario catastrofico al quale assistiamo oggi, l’incapacità della Nato a mobilitare politicamente e militarmente dei mezzi di dissuasione sufficienti per impedire l’invasione della Crimea e di una parte del Donbass deve necessariamente porci degli interrogativi.

Un’Europa ristretta deve “passare il Rubicone” di una politica autonoma di difesa e impegnarsi a costituire non già un esercito unico, ma un esercito comune sufficientemente forte da poter divenire progressivamente un vero e proprio centro di gravità della politica europea di difesa e di sicurezza. Essendo il Paese che dispone del migliore apparato militare e, soprattutto, della pratica politica dell’impegno, la Francia sarebbe, in quest’ipotetica Unione ristretta, il Paese che potrebbe meglio prendere la leadership di una tale iniziativa.

Le condizioni politiche per il successo di un’iniziativa del genere sono note: si tratta “semplicemente” di passare dal registro intergovernativo al registro comunitario, di avere l’audacia di affidare al triangolo istituzionale classico – la Commissione, il Parlamento europeo e il Consiglio (e quindi gli Stati membri) – la responsabilità di questo esercito comune, con, per dargli una legittimità forte, un dispositivo transitorio che preveda l’approvazione di tutte le decisioni d’intervento da parte di un Alto Consiglio di Sicurezza(5) composto dai capi di stato e di governo dei Paesi partecipanti alla Cooperazione Strutturata Permanente in materia di difesa.

Dal punto di vista dell’industria degli armamenti, la diagnosi è tanto nota quanto senza possibilità d’appello. In mancanza della nascita di grandi attori trans-europei, l’Europa è condannata a nuovi fiaschi economici e commerciali come quello dei due aerei da caccia concorrenti di quarta generazione (Eurofighter e Rafale) degli anni 70/80 dovuto, non come una certa vulgata tende a far credere, a disaccordi tra militari, ma, ben più fondamentalmente, all’opposizione di lobby industriali-militari preoccupate di mantenere le proprie rendite di posizione. Risultato: oltre ai costi aggiuntivi, i Paesi europei (e le loro imprese specializzate) sono tutti assenti cronici all’appuntamento con l’aereo di quinta generazione e non lavorano su nessun progetto di sesta generazione. La conclusione che si può trarre da questi fatti è che certe imprese hanno posto ostacoli sostanziali alla costruzione di una politica di difesa europea e rappresentano, di conseguenza, minacce reali alla sicurezza europea.

Serve un approccio nuovo, teso a creare delle imprese trans-europee tenendo conto sia degli investimenti realizzati nel corso degli ultimi settant’anni da alcuni stati membri, sia della volontà di altri stati membri di impegnarsi di più in futuro. Nel campo dell’aeronautica militare, la Francia detiene la chiave di una possibile iniziativa. In effetti il governo francese avrebbe i mezzi politici e giuridici per creare, a partire dalle attività militari del gruppo Dassault di cui Airbus – e quindi Germania, Francia e Spagna – detiene già il 45% delle azioni, un grande gruppo europeo, nuova filiale di Airbus, il cui capitale sarebbe aperto agli altri Stati europei (o a imprese di questi Stati(6) ) che desiderino entrarvi (Polonia, Italia, Ucraina fra gli altri).

Nel settore della costruzione navale militare, la creazione di un esercito europeo comune che comprenda fra l’altro tre o quattro gruppi aeronavali(7), potrebbe mettere un termine all’inerzia attuale in termini d’integrazione. La partecipazione agli appalti dell’esercito europeo comune potrebbe essere aperta solo alle imprese sostanzialmente plurinazionali, al fine di incoraggiare i grandi cantieri navali europei(8) a raggruppare le loro attività militari in due o tre filiali comuni(9) e concorrenti. Se ciò non avvenisse, l’Europa confermerebbe il suo lento declino strategico(10) in questo campo e rischierebbe, a medio termine, di vedere scomparire le competenze che qualche raro stato membro possiede ancora.

 

Priorità Ucraina

Più che le sanzioni, certamente necessarie almeno in quanto dimostrano una certa unità dell’Europa e, più in generale, dell’Occidente, ciò che più teme oggi il regime russo è un rovesciamento della propria opinione pubblica in seguito a perdite umane massicce nel corso di una nuova offensiva in Ucraina. Sono quindi gli Ucraini da soli, in assenza di mezzi militari europei e atlantici in grado di assicurare una dissuasione effettiva, ad essere in prima linea davanti a un regime che ha deciso di ignorare le regole internazionali tese a rendere possibile la coesistenza tra gli stati. Lasciarli soli di fronte a un regime aggressore che non esita a dispiegare mezzi militari considerevoli in armamenti e in uomini e che, dal punto di vista politico, ricorre a diversi metodi ben conosciuti (destabilizzazione, infiltrazione, ricatto, disinformazione…) sarebbe semplicemente suicida per l’Europa.

Oltre alla fornitura degli armamenti difensivi (e dissuasivi) necessari, l’Unione Europea deve mandare un segnale politico forte invertendo la logica attuale che fa dell’adesione dell’Ucraina una prospettiva lontana, il compimento di un lungo cammino. L’aggressione subìta dall’Ucraina è un’eccezione; la risposta dell’Europa deve essere dunque eccezionale.

A differenza di tutti gli altri Paesi candidati alla candidatura, e senza che ciò implichi una qualsiasi edulcorazione dei criteri da rispettare, il processo di adesione dell’Ucraina all’UE deve essere aperto immediatamente per accompagnare l’insieme del processo di riforme e di modernizzazione del Paese, per creare il clima di fiducia necessario a garantire investimenti sostanziosi da parte delle imprese europee.

Di fronte al “terremoto geopolitico” che sta investendo l’Europa, l’idea per cui la Francia dovrebbe prima mettere ordine nei suoi conti è sterile. L’Europa ha oggi un crudele bisogno della Francia e della sua capacità d’influenza internazionale, per elevarsi all’altezza delle sfide che ha davanti. Da parte sua, la Francia non potrà superare la sua “crisi d’identità”, la sua subalternità incosciente ai cantori di una realtà che non esiste più, se non riprendendo la leadership europea, per creare non già una Europa-Potenza ma una Europa-Decenza, una Europa in grado di mantenere la propria parola, di far seguire adeguatamente i fatti alle proprie dichiarazioni d’intenti.

Note al testo:

1 “The Case for Berlin: Bringing Germany Back to the West”, Jeffrey Gedmin, World Affairs, novembre/dicembre 2014. Nostra traduzione.
2 Ancorché relativa, in ragione dell’appartenenza mai smentita della Francia alla Nato.
3 Jean-Louis Bourlanges, “Identité européenne et ambition française”, Commentaire, numero 147/Autunno 2014
4 Jean-Louis Bourlanges, op. cit.
5 Secondo la formula del diplomatico Pierre de Boissieu.
6 Fra gli altri, Alenia-Aermacchi (Italia), Antonov (Ucraina), Saab (Svezia).
7 Integrando i due Mistral che non potranno essere consegnati alla Russia.
8 DCNS (Francia), Fincantieri (Italia), TKMS (Germania), Navantia (Spagna), Donbass ISD Polska (Polonia, Ucraina), Damen (Paesi-Bassi), Odense (Danimarca) …
9 Riunendo imprese di almeno tre o quattro Paesi diversi.
10 Resta inteso che un solo gruppo aeronavale ha un valore strategico vicino a zero, in particolare se questo viene articolato attorno ad una portaerei a propulsione nucleare, bisognosa di manutenzione per quasi sei mesi all’anno.

 

http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/834-il-ruolo-della-francia-nell-ue-e-dell-ue-nel-mondo

UNA NUOVA POLITICA DI DIFESA EUROPEA, PER RISPONDERE ALLA MINACCIA DI PUTIN

di Olivier Dupuis e Bernard Barthalay

Uno degli elementi più inquietanti del modo in cui l’affare ucraino viene generalmente affrontato, risiede nel modo in cui la questione della natura del regime politico del paese aggressore viene omessa. Certo, la Russia di oggi non è l’Urss staliniana e neppure brezneviana, né la Germania nazista, né l’Italia fascista, e neanche la Cina bolscevico-confuciana. È un po’ di tutto questo ed è, allo stesso tempo, qualcosa di completamente diverso. Un potere di natura nuova, straordinariamente moderno, che ha sostituito il partito unico, struttura centrale del regime precedente, con le strutture di forza (servizi segreti in primo luogo), svuotando progressivamente della loro sostanza le strutture democratiche degli anni ’90.

Anche formalmente si stanno moltiplicando i segnali che dimostrano la rapida trasformazione del sistema vigente in Russia. Oltre a una giustizia di regime sulle questioni politiche sensibili, a un parlamento fantoccio e a mass-media nella loro stragrande maggioranza addomesticati, è ormai lo stesso governo russo ad essere marginalizzato. Il centro del potere si è spostato verso la dacia di Putin dove le decisioni sono prese dal principe, circondato, sembra, dal capo del FSB e da sei o sette capi di dipartimento dei servizi, dal ministro della difesa, Sergei Shoigu, e da pochi altri. Quanto al sostegno dell’opinione pubblica alla politica del potere, regge in maniera impressionante. E seppure mai dovesse affievolirsi, il potere può contare su un sistema repressivo tanto più temibile in quanto è riuscito a compiere la sua mutazione da quantitativo a qualitativo, dalla sorveglianza-repressione a tutto campo verso un controllo-repressione mirato degli oppositori interni. Sul fronte esterno, i servizi russi hanno rinnovato le loro pratiche, associando alle tecniche tradizionali di seduzione e di corruzione, un ricorso massiccio alle partecipazioni nei settori economici più variegati. In un tale contesto, sarebbe illusorio sperare in un cambiamento di regime a breve o medio termine.

Senza una tale presa di coscienza, l’Europa rischia di fare sempre troppo poco, sempre troppo tardi. Il regime russo ha già vinto due battaglie: la Crimea è stata annessa, una parte della regione di Donetsk e Luhansk è stata, di fatto, trasformata in una nuova “Transnistria”. Una terza battaglia per il controllo dell’insieme del litorale ucraino intorno al mare di Azov e fino alla Crimea è già da ora cominciata. Sul fronte esterno, il regime segna dei punti. Viktor Orban, il primo ministro ungherese, si è schierato tra gli apologeti del padrone del Cremlino. Gli “avvertimenti” si stanno moltiplicando: ultimi in ordine di tempo, il rapimento da parte di membri dei servizi russi di un ufficiale di polizia estone, un calo senza preavviso delle forniture di gas alla Polonia.

Si rassegnino i sostenitori ad oltranza del soft power sempre e comunque, le sanzioni contro la Russia, seppur necessarie, non potranno svolgere un ruolo decisivo per fermare l’aggressione russa in Ucraina e, inoltre, per opporsi con successo alla politica russa che mira a far implodere l’Unione europea. Sono ormai indispensabili delle misure politiche di un tutt’altro ordine.

L’attuazione di un’audace politica europea dell’energia con l’obiettivo di porre fine alla dipendenza nei confronti del gas russo, necessaria per bloccare la politica del divide et impera del Cremlino.

L’apertura immediata del processo di adesione dell’Ucraina all’UE, fondamentale per accompagnare e confortare il processo di radicamento della democrazia e dello stato di diritto in corso in Ucraina.

La fornitura apertamente rivendicata dall’UE di armamenti difensivi all’esercito ucraino (armamenti anti-carri e anti-aerei), indispensabile per rafforzare le capacità di dissuasione dell’Ucraina.

Ma il crollo dell’ordine europeo provocato dalla guerra non dichiarata della Russia all’Ucraina costringe ormai l’UE e i suoi stati membri ad affrontare collettivamente la questione della loro sicurezza e della difesa dei loro cittadini, dei loro territori e dei valori che insieme e separatamente intendono incarnare.

L’obiezione è nota: una difesa europea non potrà essere che la conclusione del processo di integrazione europea. Eppure sessant’anni dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa (CED) e dopo molteplici iniziative di cooperazione bi o multilaterali nel settore senza sostanziali conseguenze politiche, crediamo che sia venuto il momento di capovolgere la logica e di considerare che, più ancora della sua utilità intrinseca in termini di sicurezza, la creazione di un esercito europeo comune contribuirà in modo determinante, di per sé, a indurre gli stati europei a definire finalmente l’elenco delle loro priorità strategiche comuni.

È quindi giunto il momento, per gli stati membri dell’Unione che lo desiderano, della creazione di un esercito europeo comune accanto ai loro rispettivi  eserciti nazionali. Non un’ennesima iniziativa intergovernativa, un conglomerato di forze nazionali senza ossatura politica, ma un esercito comunitario, composto da soldati europei, sotto l’autorità del presidente della Commissione, con dotazioni iniziali senz’altro modeste (0,20 % del bilancio degli stati partecipanti), ma sufficiente per consentire la creazione di due divisioni di intervento rapido e di due forze aeronavali di stanza in Polonia ed in Romania e, perché no, organizzate intorno ai due Mistral inizialmente ordinati dalla Russia. Gli orientamenti strategici e le regole di ingaggio di questo esercito sarebbero sottoposte all’approvazione del Consiglio dei Ministri degli Affari esteri e del Parlamento europeo.

Oltre a contribuire attivamente alla sicurezza dei cittadini europei, la creazione di questo esercito potrebbe contribuire a portare gli Europei a percepirsi collettivamente o, in altri termini, a “pensare europeo”.

http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/761-una-nuova-politica-di-difesa-europea-per-rispondere-alla-minaccia-di-putin